Socio-antropologia dei disturbi alimentari



Il tema dei disturbi del comportamento alimentare (DCM), definiti nel DSM 5 come Disturbi
della nutrizione e della alimentazione, interessa un’ampia categoria di studi accademici, che si
divide al suo interno in base all’aspetto della patologia studiato: dallo studio del significato del
cibo a livello storico-sociale fino alla ricerca delle cause psicologiche dei disturbi stessi.
Come premessa, è necessario ricordare a cosa questa denominazione si riferisce: con
disturbi del comportamento alimentare intendiamo una patologia caratterizzata da un alterato
rapporto con il cibo e il proprio corpo, associati a comportamenti deleteri, dismorfofobia e
un’ossessione per il proprio peso corporeo. Ad oggi, l’eziopatogenesi del DCA non è chiara, ma da ricondurre ad una serie di fattori che approfondiremo in seguito. In base alle diverse
pratiche comportamentali, i DCA vengono classificati in diversi categorie: anoressia nervosa,
bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata (BED – Binge eating disorder) -
meno conosciuti- anche pica (1) , mericismo (2) e disturbo alimentare evitante e restrittivo; la
diagnosi non può essere statica, in quanto molto spesso si presentano dei comportamenti
legati a diverse categorie.

La dimensione del cibo nella società postmoderna
Uno dei punti fondamentali dell’analisi delle scienze umane riguardo i disturbi alimentari è
senza dubbio quello riguardante il cibo, e soprattutto la valenza socio-culturale che
assume all’interno della patologia. In un breve exursus, è necessario sottolineare il
rapporto tra animalità e civilizzazione a cui il prodotto alimentare fa riferimento: il cibo in
sensu strictu ad oggi non esiste, in quanto la sua valenza biologica di «fornitore di energia
vitale» viene abbattuta dal passaggio da natura a cultura. Il cibo trascende la sua funzione
di semplice nutrimento, divenendo un veicolo che collega l’animalità umana al processo di
civilizzazione, un qualcosa che permane ma che ha assunto diversi significati nel tempo:
«collegamento […] sublime e potenzialmente rischioso […] con la natura» (3) . Il mangiare
diviene un modo di introiezione del reale, che si esprime in classi normative: “luoghi” in cui
emerge l’importanza socio-culturale che oggi il cibo possiede, dei veri spazi del
commestibile in cui si ha l’incontro dei veri significati attribuiti al genere alimentare.
Ed è da queste classi che possiamo prontamente evincere lo scontro tra soma e psiche:
nella società postmoderna il cibo assume un «tono biologico», riguardante la natura
dell’istinto primitivo del cibarsi e di sopravvivenza, e un «tono emotivo», in cui si ha la
trasformazione di un comportamento bestiale in un atteggiamento specifico, in molti casi
opposti tra loro. Il cibo diviene indicatore di una personalità particolare, la quale interpreta
l’oggetto attraverso vari strumenti provenienti dall’ambiente psicologico, familiare e
culturale; l’alimento, infatti, comprende l’intero orizzonte antropologico di ogni epoca, che
lo carica di valenze e simboli in costante cambiamento del tempo (ad oggi è la società
postmoderna, la società del surplus, a dominarlo). Peraltro, l’habitat sociale eredita da
quello religioso la dimensione sacra del cibo: puro e impuro applicati al magro e al grasso
e l’importanza sacrosanta che assume nei rapporti sociali, come oggetto di interazione. Il
cibo assume una forma di convivialità nell’apparato sociale, che ancora, trascende la sua
funzione primitiva: rappresenta la socialità per eccellenza, è proprio nei bar o nei ristoranti
che tendiamo a realizzare gran parte delle nostre interazioni sociali.
La società contemporanea ha ereditato queste mutazioni storico-sociale e le ha inserite
all’interno di un contesto ben più nuovo: quello del capitalismo industriale. Dal
dopoguerra, le principali nazioni attive a livello industriale, regalano ai propri cittadine la
cosiddetta società del surplus, della sovrabbondanza: ogni prodotto è sempre in più¸la sua
produzione è maggiore a quanto richiesto. Ma in questa società il vero significato del cibo,
da ricondurre alla sua dimensione biologica, viene perso nei processi di elaborazione
industriale, divenendo espressione sociale, culturale e individuale:
«per comprendere il mangiatore moderno, dobbiamo […] innanzitutto considerare il
mangiatore immemoriale: fra i due, c’è in comune un mangiatore eterno.
Nell’incertezza come pure nell’abbondanza, c’è una continuità, un’universalità
antropologica del mangiatore» (4)
La «metafisica della fame» analizza l’Homo omnivurus post-moderno, la sua angoscia
alimentare in una società caratterizzata da una voracità consumistica inestinguibile. Il
capitalismo ha alla base della sua nascita e fortuna la «produzione in serie» che, accostata
ai numerosi processi di elaborazione che il cibo subisce – dalla fattoria del contadino al
nostro piatto -, è colpevole della perdita d’identità del cibo, del suo valore di nutrimento.
Come detto in precedenza, il cibo diviene un modo d’essere in questa società, assumendo
una dimensione individuale, pubblica ed economica. Una delle principali conseguenze
della perdita identitaria del cibo nel suo processo di raffinazione è quella della perdita
dell’identità individuale. In questa società in cui vige l’«estetica della misura», la psiche è
subordinata al soma, alla mera esteriorità corporale, che si realizza proprio nella dieta che
la persona segue. La dieta è, appunto, la più alta forma di espressione della civilizzazione
del cibo: un’alleanza tra «ragione e razione» che va delineando un’“etica della nutrizione”.
La «diet-etica» è un modo di presentarsi in quanto individuo, un metodo per costruire una
propria identità sociale che va a neutralizzare quella individuale. Un’identità in cui la
morale alimentare, sempre più nemica dei processi di produzione alimentare intensivi,
diviene il principale carattere di giudizio: spesso, la scelta vegana e vegetariana deriva da
una profonda conoscenza dei processi di produzione a cui i cibi di origini animale sono
sottoposti, che si traduce nel ripudio di essi all’interno della dieta. L’età contemporanea è il
primo caso della storia in cui – fuori dalla dimensione religiosa – le persone rinunciano, e
possono permettersi di rinunciare, a categorie alimentari ben specifiche, in virtù di
un’«etica della dieta».

L’antropologia del corpo
Il corpo come un insieme di organi che collaborano tra loro al fine del mantenimento delle
azioni vitali dell’individuo è oggetto di studi della biologia e fisiologia; ma c’è una
dimensione più ampia che lo studia da un altro punto di vista: quella dell’antropologia. Le
prime ne studiano il funzionamento e i processi interna, la seconda analizza come la
concezione del corpo, a livello individuale e sociale, sia cambiata nel corso della storia e il
suo legame con l’apparato culturale in cui è inserita.
Uno dei principali punti che l’antropologia sottolinea è proprio quello del corpo come
specchio della società: soprattutto per nell’universo femminile, nel corso della storia,
l’ideale di bellezza è stato un prodotto dei vari accadimenti storici e mutamenti sociali e
della cultura di appartenenza. Se dall’età antica fino al rinascimento, in Europa, la
magrezza era il simbolo della bruttezza e della povertà e la pelle abbronzata di
un’inferiorità sociale e culturale (associata agli schiavi che lavoravano nei campi e agli
abitanti orientali), nell’età contemporanea abbiamo il fenomeno contrario, che esalta una
forma eterea e sottile con una pelle perfettamente abbronzata; l’età vittoriana,
caratterizzata da una nuova forma di ricchezza e una grande dinamicità sociale, richiedeva
un fisico prosperoso e sodo, messo in risalto dalle donne dell’aristocrazia dai famosi
corsetti; la situazione nel novecento è eteregenea: i roaring twenties hanno come simbolo
un corpo snello e slanciato, capelli corti, simbolo dell’emancipazione femminile, a
differenza della golden age di Hollywood, in cui si afferma il modello curvy e un fisico a
clessidra; dal 1950 ad oggi, si sono sovrapposti diversi modelli di bellezza, caratterizzati
dall’era delle supermodelle e dalla rivalutazione dell’importanza dello sport.
Questa digressione lunge dall’esser prolissa, in quanto necessaria per sottolineare come
nel concetto di soma, in quanto oggetto sensibile, confluiscano l’interno dell’io e l’esterno
del mondo. Dal soma passiamo così al sema, un luogo in cui si ha l’unione dell’unicità
ereditaria del singolo (tratti genetici, somatotipo) e delle costanti generali della specie, i
retaggi culturali che essa fornisce.
Il corpo e la sua percezione è legato all’ambiente socio-culturale da cui l’individuo
proviene, il quale fornisce una serie di forme che condizionano il rapporto con gli altri
«rendendo problematica l’applicazione all’uomo del concetto di istinto e la stessa
possibilità di definire dei bisogni puramente biologici» (5) .
Questo monopolio socio-antropologico sul concetto di corpo che ad oggi raggiunge il suo
apogeo, evidenzia uno dei concetti chiave del passaggio dell’uomo dallo stato di natura a
quello di cultura: l’uomo è l’unico animale che rinuncerebbe al suo istinto di
conservazione, che si concretizza in primo luogo nel cibarsi, in virtù di ideali trasmessi dalla
cultura e dall’apparato sociale. L’uomo è pronto a distruggere, a sconfiggere il proprio
corpo per dei sistemi culturali complessi interiorizzati che sopperiscono alla ricerca della
propria identità; si ha quindi l’osservanza di un regime portato all’estrema restrizione in cui
si «vive per mangiare, [ma anche] per non mangiare» (6).
Ed è proprio questo il dramma dell’anoressia-bulimia, che rendono la persona «una vaga
figura, [che] non ha requie» (7). Nel panorama di entrambi i disturbi si ha una trasformazione
del concetto di figura alla luce di una sacralità terrena: l’«etica della dieta» propone ideale
di bellezza eterei insostenibili dalle reali condizioni biologiche umane, lasciando che il
corpo – soprattutto femminile – venga trattato dalla moda e dalla riviste come una
qualcosa senza sostanza, molle; proprio l’ideologia dell’estetica dichiara il magro come il
buono e il grasso come il cattivo, rendendo questa sacralità un fondamento etico. Si ha un
«Körper mediatico [che non solo] assume su di sé le stimmate di una cultura malata e
colpevole, irresponsabile ma immensamente potente, smemorata e lanciata in una corsa
folle, senza più mete né limiti» (8), che agisce in virtù di un’etica del cibo tramite cui gestisce i
propri desideri.
Viviamo in una cultura in cui la patologia denota una volontà di eclissarsi dall’esterno, a
causa della progressiva socializzazione del cibo in quanto elemento di convivialità, e
svanire sotto i proprio vestiti in una dimensione atemporale, dondolandosi su «un’altalena
di orge alimentari e digiuni atroci» (9) . Una dimensione connotata da una serie di rituali sacri,
attuati tra la cucina e il bagno, e in cui il l’impalcatura ossea diviene un luogo di culto, in
quest’ultimo si ha il trionfo dell’immortalità (poiché sono proprio le ossa che rimangono
dopo la morte) che segna dei piccoli passi verso il suicidio; e proprio per sottolineare il
trionfo della scientificità negli ultimi secoli, si ha il monopolio del numero – dalla bilancia
alle calorie – che diviene un giudice e un filtro della realtà, personale e sociale.
L’anoressia-bulimia conduce a una «luna di miele con lo specchio», come un novello
Narciso, in cui il corpo vaga in «apatia senza Dio», ma con un amore ancora più grande.
Questa è una «malattia dell’amore», consumata in una solitudine affettiva, e per amore si è
disposti a morire.
Una solitudine che si instaura nei più complessi processi di interazione mediale: i social
network trascendono l’essere solo agenti di socializzazione, ma divengono dei veri e propri
ambianti di costruzione identitaria. Le produzioni che ne derivano sono degli agenti di
rinforzo che influenzano la percezione della realtà e del proprio corpo. Il corpo diviene un
costrutto multidimensionale (emotivo, affettivo, genetico, culturale e cognitivo), in cui si ha
l’interiorizzazione di un ideale personale e culturale. Un corpo che ritrae un’immagine
estetica elastica e mutevole, incompatibile con la realtà empirica ma caratterizzante di
quella mediatica, in cui l’anoressia-bulimia si mostrano senza che nessuno possa
riconoscerle.


1. Conosciuta anche come allotriofagia, è un disturbo alimentare caratterizza dall’ingerimento, prolungato
nel tempo, di sostanze non nutritive.
2. Con il termine, viene indicato un disturbo dell’alimentazione infantile che prevede il rigurgito del cibo
nella bocca, che viene in parte nuovamente inghiottito.
3. Come mangiamo. Appetito, cultura e psicologia del cibo trad. it. Milano: Ponte alle Grazie; 2003
4. Montanari. Il cibo come…,
5. https://www.nelfuturo.com/aspetto-sociale-della-anoressia
6. De Clercq. Tutto il pane…, p. 28
7. Il verso è tratto da Luzi M. S’avvia tra i muri, è preda della luce in Primizie del deserto in segre c, ossola c.(a cura di). Antologia della poesia italiana. Novecento. Roma: Gruppo Editoriale l’Espresso; 2004: 720 (Seconda parte, vol. 6, v. 7).
8. Lippi D., verdi l (a cura di). Storia della magrezza. Corpo, mente e anoressia. Fidenza: Mattioli 1885; 2009:
66.

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