Limiti e frontiere nella globalizzazione
Il concetto di limite risulta un’utopia nella storia dell’umanità. Sin dall’antica Grecia, tempo in cui sono state gettate le basi della cultura occidentale e in cui comincia a maturare il concetto di uomo, la parola, alla stregua di un divieto religioso, appare come una sfida: dall'ulisse omerico a Prometeo, dalla mela di Eva alle Indie per Colombo; il limite, il divieto, è da sempre considerato come un qualcosa che deve necessariamente essere superato, come a soddisfare una sorta di appagamento. In parte, possiamo elevare ad un grado più alto il detto «siamo figli della storia», che dal suo carattere popolaresco e demagogico può assumere una valenza pseudo-scientifica. Infatti, ad oggi, viviamo un fenomeno risultato di un'insurrezione religiosa e di avversità intellettuale verso le frontiere, le barriere, dei nostri progenitori: la globalizzazione.
Figlia dell’ostilità verso il limite, essa si propone come distruttrice di frontiere e di barriere, mettendo sul tavolo un progetto di comunità globale; una comunità che sembra esaurirsi in un piano di omologazione sociale, emotiva, economica, linguistica e che risulta la realizzazione delle previsioni apocalittiche dell’antropologo Levi-Strauss e illustrate nel libello Razza e storia. La globalizzazione diviene lo specchio della società odierna, e, soprattutto, della sua paradossalità: prodotto e procreatrice del nostro presente, il suo operato ha come obiettivo primario di abbattere le frontiere millenarie innalzate tra popoli - da quelle materiali a quelle metafisiche -, ma come conseguenza ottiene proprio l’innalzamento di altre frontiere. Barriere d’odio, barriere economiche, barriere coloniali; muri insormontabili in una società amalgamata come se fosse un vasto oceano, in cui sfociano duecentootto fiumi, confondendosi indistiguilmente. Da questa condizione prolifica la conoscenza internazionale e interculturale: ogni cittadino guarda curioso i suoi confratelli e l’uomo si riscopre nella sua animalità; l’odio, il razzismo, il «cattivo selvaggio» è ciò che animano questa società globale, la quale si vanta della sua civilità e multiculturalità, di ispirazione hobbesiana e in cui sembra perpetuarsi una guerra culturale ed economica da cui solo una nazione può uscire vittoriosa.
La mancanza di barriere rende attuabile la condizione di mobilità. Essa si estende dal campo delle conoscenze interpersonali a quello gnoseologico, ed è il presupposto dell’idea di globalizzazione: la capacità di abbattere e superare frontiere ancora issate è una delle richieste sociali rivolte all’uomo post-moderno. Questa mobilità risulta essere un parametro per definire la propria posizione sociale. Eppure questa mobilità non sembra una questione privata volta all’affermazione individuale, piuttosto un retaggio culturale con l’intento di provocare una stagnazione sociale; eclatante è l’esempio contenuto nello scritto Dentro la globalizzazione di Bauman: se la mobilità è condizione sia del vagabondo sia del manager culturale, è proprio la diversa accoglienza sociale riservata ai due -nulla nel primo caso, esosa nel secondo- che ne differenzia lo status. Una mobilità nemica delle antiche concezioni di spazio e di tempo, che trascendono la staticità e la continuità da cui sono state sempre caratterizzate; frontiere spazio-temporali crollano, costringendo i cittadini ad un esodo dal sapore contemporaneo. L’incapacità di ubicarsi, del riconoscersi in un dato spazio e di fissarsi in uno specifico tempo, provoca nell’uomo un sentimento di perdizione, che ne offusca la capacità di agire. Gli uomini perdono le proprie radici attraverso lo sradicamento spazio-temporale: il non avere delle coordinate precise, il non riconoscere il presente, ci porta a dimenticare di esser figli della Storia. Quest’ultima ci insegna che l’innalzamento di frontiere, di mura è sempre stato simbolo di paura e di separazione: dalle mura che circondano Firenze al mura di Berlino; ma ci insegna anche che abbattere il limite -geografico o metafisico- con visioni e progetti paidocentrici può portare solamente alla degradazione, umana e sociale: lo vediamo nel disegno politico attuato dopo la morte di Alessandro Magno -o anche nel corso della sua spedizione, se interpretiamo la sua come un’opera di ellenizzazione- e nei conquistadores delle Americhe. Italo Calvino, ne Il barone rampante, scrisse: «Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori!»; ad oggi, dobbiamo pensare che l’innalzamento di frontiere esclude la possibilità dell'avvio di un progetto interculturale di carattere globale che faccia riscoprire l’umanità ai suoi partecipanti, ma che l’abbattimento di esse sta portando alla costruzione di un società multiculturale che ha come fine il monismo, in tutti i suoi aspetti.
Inoltre, la visione umana non è mai stata di carattere cosmogonico: mai interessata a fornire spiegazioni sull’organizzazione del suo cosmos, dell’ordine sociale. Lasciata nell’ignoranza della sua genesi, adesso deve fare i conti con le richieste di una risposta alla costruzione di un nuovo impero globale, che già Marx e Engels avevano predetto nel loro scritto: un impero che per alcuni risulta essere un privilegio, per altri un’utopia, per altri ancora un dilemma. La mobilità storica ha attraversato la nascita dell’idea dell’Europa, di cui personalità come Montesquieu e Voltaire sono i padri: nelle loro riflessione hanno messo in luce il divario tra Vecchio e Nuovo mondo, e ponendo questa giustapposizione alla base del riconoscimento dell’europeo nella sua patria, danno vita a una nuova ideologia; questa trasferibilità giunge sino all’idea di una globalizzazione, perpetrata negli uffici delle multinazionali che guidano la società: ma l’uomo non riesce più a riconoscersi in una patria, in quanto la contrapposizione in ciò che è separato da essa non vi è più, poiché ormai il globo viene inteso come un unico blocco, e non riconoscendosi perde se stesso, la propria identità. Il problema principale riscontrato dal fenomeno dell’unità globale, rispetto a quello dell’unità europea e di quella coloniale in America, è proprio la sua mancanza di logica: se le precedenti idee hanno avuto la possibilità di trasformarsi in ideologia e poi in realtà, all’idea di una mondializzazione mancano i presupposti storici, sociali, culturali per un’effettiva attuazione. Sotto le direttive di Augé possiamo dire che la globalizzazione contemporanea riguarda meramente la tecnologia, un accenno di imperialismo economico, una costante necessità di democratizzazione; ma l'intollerabilità culturale, l'inconciliabilità ideologica, l’impossibilità di un sincretismo, rendono ciò che per quasi ogni uomo è la quotidianità, un puro abbozzo del futuro. La teoria della globalizzazione può essere accusata di avere carattere “a medio raggio”: non tiene conto delle particolarità culturali, proponendo una società multiculturale e non interculturale; una società che vede la caduta di frontiere millenarie, ma l’innalzamento di altre contemporanee.
Tentiamo di costruire questo imponente tempio globale abbattendo delle colonne già esistenti, quelle frontiere di cui abbiamo parlato. Concentrandoci sull’estetica di questa costruzione ci dimentichiamo di due aspetti: da una parte delle sue fondamenta, del sentirsi emotivamente un’umanità, che Morin riconduce al sentimento dell’«identità terrestre»; dall’altra, della sua sacralizzazione pubblica: un tempio ha lo scopo di onorare gli dèi, ma, ad oggi, si ha soltanto un Dio tecnocratico, e innalzare un tempio in suo onore ne comporterebbe una futura sconsacrazione, da parte della realtà umana.
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