Il Veltro dantesco: e Virgilio?
« […] infin che'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia. V. 102
verrà, che la farà morir con doglia. V. 102
Questi non ciberà terra né
peltro,
ma sapïenza, amore e virtute
ma sapïenza, amore e virtute
e
sua nazion sarà tra feltro e feltro.
V. 105
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo
e Turno e Niso di ferute.» V. 108
(Inferno,
I, vv.101/108)
Gli studiosi della Divina Commedia e del
suo autore, il fiorentino Dante Alighieri, hanno interpretato la figura del
“veltro”, ossia colui che ucciderà la lupa (metafora per indicare il vizio
della cupidigia) e la rispedirà nelle profondità dell’Inferno, accostando la
sua figura a quella di diversi personaggi, quali: Cristo, l’imperatore Enrico
VII, Cangrande della Scala (nobile che ospitò Alighieri durante il suo esilio,
e a cui il poeta dedicò il Paradiso della sua più grande opera), Uguccione
della Faggiuola e Dante stesso; altri credono si riferisca ad una carica, altri
ancora ci dicono che Alighieri non avesse in mente una figura ben precisa.
Eppure sembra impensabile che un così grande poeta, che
attribuiva ad ogni parola trasferita dalla sua mente sulla carta un significato
ben preciso, senza lasciare niente al caso, non avesse nei pensieri una figura
ben precisa per questo personaggio.
Allegoricamente, il veltro, viene visto come la figura che
caccerà il vizio della cupidigia – il cui, secondo Alighieri, è onnipresente
nella città di Firenze -. Da una mera figura letteraria lo scrittore ne
prospetta l’operato su scala reale; non è, infatti, da escludere che Alighieri
intendesse lui stesso, con la sua opera, eliminare il vizio dalla città che gli
ha dato i natali. Ma come avrebbe fatto a portare la sua opera se non fosse
fuggito dalle tre fiere incontrate ai piè del colle della felicità? In un clima
totalmente metafisico e surreale, Alighieri vuole portare valori reali e
intende ogni azione come se l’avesse veramente vissuta.
Secondo questo ragionamento, quindi, c’è un personaggio che gli
studiosi hanno tralasciato, forse ritenendolo troppo scontato per la ‘carica’:
il poeta latino Virgilio, nonché guida di Alighieri nel suo viaggio
ultraterreno (lo accompagnerà nell’Inferno e nel Purgatorio, sulla cima di
quest’ultimo lo lascerà poi nelle mani di Beatrice). Vi sono diverse
informazioni, nel testo, che sono a favore di questa tesi.
1°- “infin che'l veltro/verrà,
che la farà morir con doglia.”: Virgilio dice che nel momento in cui il
veltro arriverà la farà morir con dolore. Possiamo vedere come il termine
“morire” possa essere stato usato da Alighieri non nel vero senso della parola,
quanto più come “soffrire” (“morir con doglia”), o “morire di fame”. Notare
come Alighieri – attraverso Virgilio –, nei versi antecedenti, ci dica che,
allegoricamente, la lupa dopo ‘l pasto ha
più fame che pria (v. 99), la cupidigia[1] (ricordiamo che è il vizio
che si cela sotto la lupa) si “ciba” dei desideri altrui, e non ne è mai sazia.
Seguendo questa strada vediamo come la lupa voglia cibarsi di Dante (il cui,
nella Commedia[2], più grande desiderio – in quella circostanza – è arrivare in
cima al colle), ma Virgilio lo salva, lasciando la lupa a “morir con doglia”,
morire di fame, soffrire.
2° - “Questi non ciberà
terra né peltro”: questo (il veltro) non si ciberà né di terra né di denaro
(peltro, materiale con cui venivano coniate le monete). Prima di tutto,
dobbiamo ricordare che Dante inserisce Virgilio all’interno della sua Commedia
grazie alla conoscenza della sua grande opera, l’Eneide[3], come
ci ripete più volte durante il corso dell’opera. E’ interessante vedere come,
Virgilio, per scrivere l’Eneide non sia stato pagato dall’imperatore Augusto né
con terre (terra) né con un compenso monetario (peltro), ma con la protezione
da parte dell’imperatore.
3° - “ma sapïenza, amore e virtute”: questo verso è stato interpretato
come “si pascerà di Dio e delle cose divine” e “si nutrirà della ricchezza
della mente e dell’animo”. Queste due interpretazioni possono portare
fuoristrada da ciò che stiamo cercando di argomentare, ma in realtà si
avvicinano molto di più di quanto si possa pensare. Per quanto riguarda la
prima interpretazione, vediamo come Virgilio, quando lui e Dante visitano il
Limbo, sembri quasi risentito di non esser vissuto prima di Cristo ed essere
riuscito ad adorare quella fede che è propria di Alighieri, dice infatti “Per tai difetti, non per altro rio/semo perduti,
e sol di tanto offesi/che sanza speme vivemo”[4] (Inferno, IV, vv. 40-42),
attraverso queste parole vi è una nota di malinconia e taciturna sofferenza;
non possiamo poi dimenticare la sua definizioni dell’epoca in cui viveva, “nel tempo degli dèi falsi e bugiardi”
(Inferno, I, v.72).
La
seconda interpretazione può riferirsi alla sua educazione: secondo le fonti
Virgilio si dedicò allo studio della grammatica, filosofia e retorica, incontrò
anche molti letterati antichi, aumentando sempre di più la cultura; come ben
sappiamo, al tempo, l’educazione veniva vista come una vera e propria ricchezza
e cibo per la mente e l’anima, un qualcosa che portava sapienza, amore e virtù.
4° - “e sua nazion sarà tra feltro e feltro.”: per la nostra ricerca
questo verso rappresenta un tesoro. Analizzandolo nel suo insieme notiamo come
Alighieri ci sveli l’ubicazione dove è avvenuta la nascita del veltro: feltro e
feltro indicano rispettivamente la regione di Monferrato e la cittadina Feltre,
la quale si trova in provincia di Belluno, in Veneto; prendendo la carta
geografica e collegando le i due punti con una linea ben visibile, ci si
accorgerà come Mantova[5] si trovi, letteralmente,
tra i due, “tra feltro e feltro”. Ma cosa c’entra Mantova? Ebbene, Mantova (più
precisamente Pietole) non è altro che la patria del nostro caro Virgilio. Come
Alighieri ci ripete più volte, egli nasce a Mantova[6], come i suoi stessi
genitori. Anche il suo epitaffio ce ne svela la città di provenienza[7].
Prendendo in considerazione solo la parola “feltro” vediamo che
indica una stoffa in microfibra. Nonostante i ritrovamenti più antichi di
questa stoffa siano stati rinvenuti in Siberia, sappiamo che era molto usata,
sin dal terzo millennio a. C., per produrre toghe e abiti in Grecia e a Roma;
non possiamo escludere che Virgilio abbia indossato questo tipo di stoffa,
soprattutto visto che si tratta di una stoffa umile, e la sua umiltà è un altro
punto fondamentale in tutto ciò, scopriremo perché nel prossimo punto.
5°- “Di
quella umile Italia fia salute”: anche questo verso potrebbe sembrare un
arcano, ma in realtà a noi ci interessa principalmente una parola: umile. L’umiltà
è un qualcosa che, nel nostro caso, non può passare inosservata. Vediamo come
Alighieri possa aver usato una sinedddoche: il tutto per la parte, scrivendo
“Italia” ma intendendo Andes, o Mantova, o Pietole, qual dir si voglia. Se
fosse realmente così, le prove che il veltro sia Virgilio aumentano; così
Alighieri ci dice – ricordiamo, attraverso l’autore latino – che il veltro
proviene dall’umile cittadella di Mantova [8].
6°-“per
cui morì la vergine Cammila, Eurialo e Turno e Niso di ferute.”: è quasi
scontato sottolineare quanto importante sia il fatto che Alighieri dopo una
descrizione estremamente accurata di quello che egli ci presenta come “il
veltro”, citi i personaggi di Virgilio [9], proprio colui che
pensiamo possa rappresentare il fantomatico cacciatore della cupidigia.
Per coloro che protestano dicendo che è
Virgilio stesso a descrivere il veltro: ricordatevi, Virgilio dice ma Dante
scrive, e non vi è bisogno di aggiungere nient’altro.
Forse può sembrare fin troppo surreale
e, per certi versi, patetico dedicarsi con così tanta cura ad un qualcosa di
così piccolo. Dopo tutto ciò una conclusione sembra così scontata e inutile,
visto che per tutto il tempo abbiamo analizzato solo conclusioni. Vi lasciò,
però, con una frase del nostro Virgilio: “Non
ti fidar troppo del colore delle cose”.
[1]
Per
cupidigia s’intende il desiderio bramoso e irrefrenabile di arricchimento
materiale, sessuale e di potere, secondo Alighieri è proprio di molti principi
e pontefici suo contemporanei e presente in grande misura a Firenze.
L’arcivescovo Luciano Pedro Mendes de Almeida (1930-2006) la definì l’avere come orizzonte della propria vita
l’arricchimento e l’accumulazione di beni o la soddisfazione di bisogni
artificiali.
[2] In origine, quella
che al giorno d’oggi è conosciuta come ‘La Divina Commedia’, portava solo il
titolo di ‘Comedia’ (il titolo originale dato da Alighieri). L’aggettivo
‘Divina’ le fu attribuito in seguito dal letterato italiano Giovanni Boccaccio
(1313-1375), e si trova a partire dall’edizione del 1555, curata dal grammatico
Ludovico Dolce (1508/10-1568)
[3] L’Eneide è un poema
epico redatto dal mantovano Publio Virgilio Marone tra il 29 a. C. e 19 a. C.
Il poema narra il viaggio del troiano Enea che, scappato dalla città Troia,
dopo lunghi viaggi, fonda la città di Roma, come predetto dagli dei. L’opera è
stata richiesta a Virgilio dall’imperatore Augusto: egli stava ancora piazzando
le fondamenta del suo impero e voleva che la città apparisse nobile e voluta
dagli dei, per esaltarne la grandezza e nascita. Alighieri󠄼 sceglie
Virgilio come guida, non solo perché è il
suo autore, ma anche perché ha descritto la catabasi compiuta da Enea, nel
libro VI dell’Eneide.
[4] “Per questo difetto, non per
altra colpa, siamo dannati, e solo di ciò soffriamo, nel fatto che viviamo,
senza speranza, nel desiderio perenne di vedere Dio”. I dannati nel Limbo
scontano solo il peccato di essere nati prima di Cristo e, a causa della
mancanza di battesimo non possono passare nel Paradiso. Nel Limbo vi sono molto
poeti, filosofi e grandi personaggi mitologici
[5] Secondo le fonti Virgilio sarebbe
originario di Pietole, a suo tempo chiamata Andes, una cittadina vicino
Mantova.
[6] “e
li parenti miei furon lombardi/mantoani per patria ambedui” (Inferno, I, vv.68-69); “O anima cortese mantoana” (Inferno,
II, v. 58), così Beatrice si rivolge a Virgilio; “E quell’ombra gentil, per cui si noma/Pietola più che villa mantoana”
(Purgatorio, XVIII, vv. 82-83).
[7] “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet
nunc/Parthenope; cecini pascua, rura, duces” (“Mantova mi generò, il
Salento mi rapì, e ora mi tiene Napoli; cantai i pascoli, le campagne, i
condottieri.”) questa è il celebre epitaffio che si trova sulla tomba di Publio
Virgilio Marone, la quale si trova a Napoli nel Parco Vergiliano a Piedigrotta.
[8] Vediamo come “l’umiltà” è collegata anche al
verso antecedente (105).
[9]
Camilla, Eurialo, Turno e Niso sono personaggi dell’Eneide impegnati nella
guerra che vede impegnati i troinai, capitanati da Enea, e gli italici. Con un
climax ci dice che Camilla e Turno combattono per l’indipendenza del Lazio,
mentre Eurialo e Niso sono soldati di Enea.
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